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Dall'inedita autobiografia di Carmelo Mendola, noi figlie Cordelia e Ileana abbiamo raccolto la descrizione di attimi irripetibili, di emozioni varie e profonde per trasmetterle ed affidarle alla memoria di chi vorrà conoscere e ricordare questo artista dotato di una grande personalità che, senza una benché minima preparazione, provocato soltanto dall'impeto di una violenta carica sentimentale ed emozionale, si è trovato a parlare fluidamente di arte in tutti i suoi linguaggi: pittura, scultura, musica, poesia. |
Profilo d'artista
Carmelo Mendola nasce a Catania nel 1895 in una famiglia della medio-borghesia. È il terzo di sette figli. Il padre gestisce un’azienda di commercio di legname, dove pensa di introdurre i suoi figli maschi. Per le figlie, pensa una tranquilla vita con le attività proprie delle donne: musica, pittura, ricamo e poi matrimonio, figli. Il figlio Carmelo però, irrequieto, rivela subito un forte senso di indipendenza. Dirà lui stesso nella sua autobiografia "...nella mia mente di ragazzino un turbinio di visioni. Vaghi desideri di creare grandi cose. Protozoi di vasti programmi, cercavano di fecondare la mente immatura che non sospettava ancora le lotte per giungere alle confuse e molte mete, che apparivano e sparivano come lampi senza un carattere configurabile." Brama ardentemente "...il divenir del mondo esperto e di li vizi umani e del valore" dirà di lui, rifacendosi a Dante, la nipote Giorgia Arena, che continua: "...giovinetto si imbarca, come mozzo su una nave mercantile, realizzando così il suo sogno di solcare mari e terre sconosciute, conoscere popoli, usi e costumi, tradizioni altre. Incontri, esperienze, emozioni, ricordi, materia di ispirazione e fonte di pathos per la ricerca artistica che Egli non tarda a intraprendere. Nella sua città natale, a casa, vicino alle sorelle, si avvicina alla musica, alla pittura: sembravano tranquilli passatempi, ma per lui non sarebbe stato così."
Partecipa alla Prima Guerra Mondiale, combattendo valorosamente in trincea: "...lampi di cannone sulle rive insanguinate dell’Isonzo, esplosioni, membra umane, miste a schegge di legno di ferro, lanciate al cielo, da cui incombeva il crepitio delle armi. Vivevamo la tragica Guerra del 15-18... provai come si muore fulminati dalla violenza, o meglio non si prova nulla: un colpo e via all’altro mondo, senza l’ineffabile sensazione di avvertire il trapasso. Rinvenni e la prima impressione fu quella di non trovarmi più in questo mondo, con un vago ricordo di essere stato trafitto da mille corpi aguzzi come aghi. Mi convinsi poco dopo che si era trattato dello spostamento d’aria prodotto da una granata esplosa troppo vicina, che mi scagliò lontano..., giornate terribili..., fiumane di gente portate da una corrente turbinosa, che trascinava con sé il fango umano di un esercito in rotta..."
Tornato a Catania, ottenuto il diploma di Ragioneria, riprende l’attività commerciale, iniziata nell’azienda paterna, costituendo lui stesso un’altra notevole azienda. Si sposa con una donna friulana, Erminia Tamburlini, conosciuta durante la guerra, diviene padre di due figlie, Cordelia e Ileana. Non trascura mai, però, l’interesse per l’Arte, di cui sente il forte richiamo, fino a provare lui stesso la necessità di esprimersi in quelle espressioni che fino a quel momento erano state motivo di interesse, di emozione, di curiosità. Da autodidatta inizia ad intraprendere, all’età di 40 anni, l’attività artistica, rivelandosi pianista, scultore, pittore, poeta. Nella prima scultura (Statua prima "Danzatrice", 1936) dirà di lui Luciano Budigna: "...rivela una compiutezza estetica ed un magistero formale del tutto impensabili senza un lungo tirocinio, un pazientissimo apprendistato."
L’artista dirà di se stesso: "...corro, corro all’impazzata, così con la testa bassa e le mani protese in avanti, per farmi largo nella ressa sempre crescente della folla anonima. Ho attraversato rapidamente strati di un lembo dell’eternità. Sono state sovrapposizioni di ambienti dai colori cangianti, come immersi in un’atmosfera ora illuminata dal sole, ora ottenebrata da oscurità profonde come di abissi dal fondo irraggiungibile. Nella corsa ho incontrato visi severi di gente del mondo finanziario che è appartenuta al bruto lavoro della piccola e grande economia, od alla bassa o alta diplomazia. Mi sono infilato nella zona seducente e misteriosa delle forze occulte sovrannaturali e quindi riapparso nel vivo di una realtà nuova... Oggi mi incammino in un nuovo ambiente in cui gruppi di privilegiati mi guardano circospetti e sorpresi come un intruso, che capiti al pari di un fulmine a ciel sereno, in un tale mondo che un giorno sembrò essermi impedito.... lascio dietro una giovinezza che simile ad una meteora si sfalda in mille luci e cerca un’altra giovinezza che mi dia modo di mettere a nudo quelle forze concrete che scorrono nelle vene infuocate del mio corpo fisico che prosegue il suo cammino."
Continua la sua attività professionale e, ora, anche artistica. Prendono forma varie sculture: figure intere, ritratti, tutti caratterizzati da un forte senso armonico. Colori sgargianti e mediterranei ricoprono tele grandi e piccole; si tiene a contatto con persone del mondo artistico e non trascura di interessarsi alla sua città, osservandone l’evoluzione architettonica, desiderando di poter un giorno intervenire per maggiormente abbellirla.
Durante il regime fascista, colpito dalle fattezze statuarie di Mussolini riproduce il suo volto sulla facciata dello stadio e a tutto tondo in statue che vengono poste in edifici pubblici della città, ritratti che verranno poi distrutti alla caduta del regime.
Scoppia la Seconda Guerra Mondiale. Segue l’annientamento della sua azienda commerciale. Moglie e figlie sfollano verso il Nord; la famiglia viene divisa dal fronte bellico. Per l’Artista inizia quello che sarà un periodo ricchissimo di produzione. Rimasto solo, anche se nella sua bellissima e grande casa (abitava allora in via Etnea di fronte l’Orto Botanico) si alternavano personaggi famosi, che egli invitava per riempire la sua solitudine (ricordiamo Arturo Benedetti Michelangeli, Ferruccio Tagliavini, e altri artisti, poeti, critici, personaggi politici, eccetera), la suddetta solitudine era grande:
...la gente chi ‘nni sapi di sti cosi
di sti tragedii ‘nmezzu a quattru mura,
non vidi mai li spini di li rosi...
Scrive così Giovanni Formisano, poeta dialettale catanese, in una poesia (a Carmelo Mendola, scultore) e lo stesso Mendola scrive: "...sentivo profondamente la mancanza di affetti, di amore e la musica, quando potevo sentirla, ne esacerbava le sensazioni dolorose, struggendomi. Musica, sogni, visioni, cuore, mente, sensi esaltati, oscuri, torbidi desideri..., fu in quella profonda solitudine e prostrazione spirituale, che nacquero le mie più impegnative opere, che colmarono la necessità di crearmi delle compagnie. Esse mi assistettero validamente e mi aiutarono a vivere i miei giorni e le mie notti bianche. Quando, a notte inoltrata, non volendo togliere le mani dal lavoro creativo, a malapena, me ne staccavo, con un atto di forza, per consumare una frugale cena, il discorso con le mie statue continuava. E continuava ancora prima di mettermi a letto, quando sedevo al piano per le mie solite improvvisazioni che sembravano la continuazione delle mie invenzioni plastiche... La musica, quando la potevo ascoltare, sottile e penetrante, invadeva i miei sensi saturi di una carica imponente che assumeva la funzione di una pietra filosofale, attraverso cui la stessa musica trasfigurava in una specie di solidificazione concreta. E le statue, sviluppandosi, si arricchivano di armonie e contrappunti nel gioco dei vuoti e dei pieni così che pensavo fosse naturale supporre che la materia, se si fosse scomposta o sciolta, avrebbe dato luogo ad una sonata di Vivaldi o ad un concerto di Beethoven e a melodie sgorganti da mille strumenti dai suoni strani. Spirito e sangue vorticanti nell’aria in uno ai corpi dell’universo."
Finita la guerra, nel 1946 la famiglia si riunisce. Riprende l’attività commerciale, continua instancabile l’attività artistica.
Riconosciute le qualità ritrattistiche di Mendola, gli viene dato l’incarico di eseguire il ritratto di Angelo Musco da porre nel viale degli uomini illustri del giardino Bellini. Ne seguono altri. Continuano le figure a tutto tondo, cresce il numero delle sue creature da cui egli non vuole separarsi. Rimane emblematico l’acquisto dell’Opera Prima da parte di Monsieur P. Ricard di Bendor che pone in mano all’Artista un vistoso assegno pur di avere per sé la statua che si trova ora nell’isola di Bendor davanti a Marsiglia. Pur di non separarsene completamente, Carmelo Mendola chiede a M. Ricard il permesso di riprodurre la statua, privandola delle braccia.
Si arriva al Bando del Concorso al Monumento a G. Verga nella Piazza omonima di Catania. Carmelo Mendola vi partecipa, riuscendo a vincerlo, dopo 20 anni di innumerevoli vicissitudini. Sono 20 anni in cui si susseguono periodi in cui sembrava fosse arrivato il momento di poter realizzare il sogno di fare dono alla sua città di una delle sue opere più belle, e periodi in cui tutto sembrava opporsi a questo suo desiderio fino ad arrivare al 25 Ottobre 1975, data in cui finalmente la Piazza Giovanni Verga acquista la sua completezza con la Fontana dei Malavoglia. Nelle fasi stagnanti del Concorso per il Monumento a Verga vanno maturandosi altri avvenimenti. Ricorrendo in quel periodo il 2700° anniversario dello sbarco dei Greci in Sicilia, viene dato a Carmelo Mendola l’incarico di ricordare con un cippo o un monumento questo avvenimento. Fu la statua della Nike, con le sue forme suggestive a tramandare il ricordo dello sbarco dei Greci in Sicilia.
Nel frattempo, egli racconta: "...la parte nord della città, che volge verso occidente, attrasse un giorno la mia istintiva attenzione, con quello stesso istinto che, a primavera, guida le rondini in cerca di un luogo adatto ad impiantarvi il loro nido..." Dice L. Budigna: "...fu così che un giorno, improvvisandosi architetto, Mendola progetta ed edifica la sua dimora, espressione del suo patriarcale concetto della famiglia e tempio dove disporre e custodire le proprie opere..."
Nel 1961 riesce a portare a termine la Casa-Museo, di cui una parte diventa sede dell’Artista e delle sue figliole, mentre la restante parte diventa sede del laboratorio e delle sue opere.
"...Superai quindi tutti gli ostacoli e, finalmente, come scaricato da un gran peso di responsabilità e di impegno, questa casa, quasi un monumento, questa casa dei miei lunghi sogni tanto sospirati, quella che vedevo un giorno stagliarsi sullo sfondo del cielo azzurro all’estremità di una specie di irraggiungibile albero della cuccagna, eccola qui, finita... Mi ritirai nella mia camera, ripassai in rassegna tutti i particolari della mia fatica..., la porta si spalancò, una luce conquistò la mia stanza e la vita luminosa, sotto forma della piccola Renata, la più giovane delle mie nipotine, mi avvolse con le sue esili braccia, costellandomi di piccoli baci. Un respiro caldo, un sussurro lieve conteneva queste parole: nonnino ti voglio tanto bene..."
Era nata la Casa Museo. Nella parte dedicata alla custodia delle opere, prendevano la loro definitiva installazione le statue e i quadri dell’Artista. Nel giardino troneggiava il bozzetto del Monumento a Verga. Nella Piazza omonima le cose andavano per le lunghe, ma, a casa almeno, si poteva ammirare quello che l’Artista sognava di poter un giorno installare nella piazza catanese. L’afflusso delle persone era continuo, volevano tutti rendersi conto del perché i lavori nella piazza non andassero avanti, volevano conoscere l’Artista e le sue opere. Anche qui, come nella casa precedente, si alternavano artisti, critici amici, personaggi importanti con cui Mendola parlava di sé o delle sue creature (così amava chiamare le sue opere).
Chiusa l’attività commerciale, seguono anni di attività nel campo dell’Arte. Oltre che alla scultura e alla pittura, si dedica alla fotografia (numerosi sono i volti riprodotti) e alla poesia.
Alla fine dirà: "...il mio cammino è stanco... non ho rimpianti di alcuna sorta perché ho compreso e seguito sempre il movimento degli ingranaggi del mio procedere, prevedendo e fronteggiando, alla meno peggio, gli insulti delle intemperie incontrate... c'è tuttora una folla di idee e di propositi inespressi, di nuovi complessi in formazione, di altre realizzazioni sul punto di concretizzarsi, ma il piedistallo su cui poggiano è come le palafitte di Venezia. Ne avverto la inesorabile corsa verso un divenire che è comune a tutto ciò che nasce.
Nell’atmosfera fluttuano le divine note del quarto atto della più romantica opera Verdiana. Sono note in cui si amalgamano i miei sensi che hanno sempre attinto essenza nel regno della modulazione armonica, dei suoni melodici che intridono incessantemente la Divinità del Creato; di questo immenso Creato costruito sulle grandi basi architettonicamente perfette dell’Assoluto."
Mentre si preparava a rituffarsi nella produzione artistica, con rinnovato e vivo desiderio di esprimersi e comunicare, la sera del 25 Ottobre 1975, gli è data la gioia di vedere la sua Fontana nella piazza Giovanni Verga di Catania. Quella sera, tornando a casa, potrà dire: "Ora posso morire tranquillo, perché ho portato a termine il mio compito." La sera del 5 febbraio 1976... racconta lo storico Giuseppe Consoli: "Quella sera del 5 Febbraio, quando l’ictus improvviso spense la sua mente nel coma irreversibile che lo rapì dopo qualche giorno, Carmelo Mendola era ritornato solitario, nella grande Piazza Catanese che si intitola a Verga, a rimirare a lungo, non senza legittima gratificazione, la splendida Fontana monumentale che Egli aveva appena compiuto, fervida di getti e di vortici d’acqua nebulizzati e iridescenti al sole o ai fari notturni, il cui nucleo bronzeo, la prua che si impenna con dentro i due sventurati, nel gorgo inesorabile, raffigura l’istante drammatico del nubifragio della Provvidenza, la barca dei Malavoglia, dal racconto del sommo scrittore siciliano. Credo, per assurdo, che se gli fosse stato concesso di scegliere il modo, il luogo e il momento della sua scomparsa fisica, Carmelo Mendola non avrebbe potuto preferire che quel modo, quel luogo, e quel momento, così connaturati al suo stesso destino."
Il Cellini dell'acqua
Ricordo dello storico Giuseppe Consoli in occasione del 10°
anniversario della scomparsa di Carmelo Mendola
Quella sera del 5 febbraio 1976, quando l'ictus improvviso spense la sua mente nel coma irreversibile che lo rapì dopo qualche giorno, Carmelo Mendola, era ritornato solitario nella grande piazza catanese che s'intitola a Giovanni Verga a rimirare a lungo, non senza legittima gratificazione, la splendida fontana monumentale ch'egli aveva appena compiuto, fervida di getti e vortici d'acque nebulizzate e iridescenti al sole o ai fari notturni, il cui nucleo bronzeo con la prua che s'impenna con dentro i due sventurati, nel gorgo inesorabile, raffigura l'istante drammatico del naufragio della Provvidenza, la barca dei Malavoglia, dal racconto del sommo scrittore siciliano.
Credo per assurdo, che se gli fosse stato concesso di scegliere il modo, il luogo e il momento della sua scomparsa fisica, Carmelo Mendola non avrebbe potuto preferire che quel modo, quel luogo e quel momento, così connaturati al suo stesso destino.
La Fontana dei Malavoglia, era stata per lunghissimi anni, tra ansie tormentose e contrasti e impedimenti meschini che sembravano insormontabili, il suo miraggio più tenace ossessivo, a cui egli aveva tributato ogni dedizione, la sua formidabile carica di vitalità e d'immaginazione. E perciò l'aver potuto concludere la sua giornata terrena, compiacendosi di vedere, finalmente realizzata in tutto il suo magico effetto ambientale, come uno dei rari luoghi di sosta nel trambusto urbano, quell'opera che egli aveva compiuto con le sue mani, avendone calcolati tutti i giochi d'acqua e di luci con accurata ricerca dei materiali e dei meccanismi più adeguati, in frequenti escursioni nelle sedi tecniche specializzate, senza risparmio di mezzi e di energie, è stato quasi il premio che Carmelo Mendola si era meritato dalla vita.
Chi ha avuto (come io l'ho avuto) il privilegio di stargli vicino, quando egli costruiva i grandi gessi nella fonderia Chiurazzi di Napoli, in attesa di vederli tradotti nel bronzo, o quando ne curava la posa in opera nella piazza catanese, sotto il sole d'estate, infaticabilmente vigile e scattante, nonostante i suoi ottant'anni, non può che interrogarsi sulla natura di quest'uomo fuori dall'ordinario che non si può definire con la semplice etichetta professionale di scultore, come egli preferiva qualificarsi, per una scelta di immagine che sentiva propria, mentre era un uomo fatto per indossare più il giustacuore che la giubba sopra la corazza.
In realtà Carmelo Mendola non fu soltanto uno scultore. Era soprattutto e a tutti i riguardi, un uomo a misura rinascimentale. Amava moltissimo la musica. Frequentava i concerti: era egli stesso un valente esecutore al piano e non disdegnava i ricevimenti nella sua casa, con ospiti di alto prestigio musicale sia italiani che esteri. Era un conversatore di grande amabilità; lettore appassionato di narrativa e di saggistica; molto interessato al teatro. Praticava diverse lingue estere. Era un valentissimo fotografo. Molto curioso di filosofie esoteriche, non celava le proprie doti medianiche. Viaggiava spesso. Aveva amici in diversi paesi Europei e negli USA. Si recava spesso ovunque fossero da visitare mostre importanti d'arte contemporanea: ne discuteva e ne traeva infiniti stimoli. Disegnava accanitamente, ovunque si trovasse. Dipingeva spesso, prediligendo l'uso della spatola a quello del pennello, intervenendo sul risultato casuale degli impasti con ritocchi appropriati: i suoi dipinti sono, in genere, sollecitati da innumerevoli effetti cromatici, nella pasta tormentata. Ma non si limitò soltanto alla creazione d'immagini. Egli progettò e realizzò in tutti i dettagli la sua dimora, di cui andava fiero. Così la definì il Budigna: "Un fatto architettonico di enorme interesse: per l'estrosità e spesso, per la genialità delle soluzioni tecniche poste in funzione dell'idea primigenia, per l'eleganza e la monumentalità della strutturazione spaziale, soprattutto per l'intima saldezza dell'insieme; sì che, più che di un edificio, si potrebbe parlare di una immensa e articolatissima scultura eseguita secondo moduli musicali di grandiosità bachiana."
In effetti, quell'intero edificio va visto come "l'espressione del suo patriarcale concetto di famiglia e tempio dove disporre e custodire la propria opera". Carmelo Mendola era di fatto incredibilmente geloso di tutte le sue creazioni.
E ne ha disposte le più significative nella Galleria grande, nel Laboratorio, nello Studio verde, nella Veranda del Colapesce, nel Sottoportico della Lotta, nella Terrazza Giovanni Verga, facendo della sua dimora una vera "casa museo". Al rivederle si ha come la rivelazione di un prodigio.
Nella monografia che Luciano Budigna ha curato per le edizioni Galleria Cortina di Milano nel 1969, spicca nettamente il senso di tale rivelazione: "Questa singolarità, dell'opera di Mendola, questa unicità che ne fanno, nel senso più alto e persino allarmante del termine, un "caso" a sé stante, deriva fondamentalmente l'atipicità del suo iter operativo: dal manifestarsi della sua vocazione al processo di affinamento e di definizione del suo linguaggio plastico, dalla complessità delle sue componenti intellettuali, morali, psicologiche, sentimentali ed emozionali, alla poliedricità dei suoi interessi artistici, culturali, anche scientifici e propriamente tecnici."
E più in là: "Nessuno degli esegeti dell'opera mendoliana ha mancato di soffermarsi sul momento iniziale relativamente tardivo, della concreta manifestazione della vocazione plastica nell'artista catanese: e, per la verità, sarebbe un fatto già di per sé singolare, che un uomo in età di quarant'anni, del tutto digiuno di studi accademici e di precedenti esperienze tecniche si "improvvisasse", per dir così scultore: cioè operatore di una delle più ardue forme di espressione creativa. Tanto più sconcertante nella fattispecie, il risultato di quell'improvvisazione che è la statua prima, eseguita di getto dal quarantenne Mendola nel 1936, rivela una compiutezza estetica ed un magistero formale del tutto impensabili senza un lungo tirocinio, un pazientissimo apprendistato precedenti."
"Quella statua prima (che dall'avvio esterno ha il nome Stefania) fa parte oggi di una delle più importanti raccolte internazionali (la collezione Ricard): il che conferma la piena validità di quel primo sorprendente esito espressivo della personalità di Mendola."
Da quell'opera iniziale del 1936 alla conclusiva del 1976, un arco di quarant'anni si è costellato di prove e di esperienze, di assimilazione e di ricerche per Carmelo Mendola. E le singole tappe di tale itinerario, se individuate nella loro esatta dislocazione cronologica, ne scandiscono l'ordine evolutivo dei valori formali, dalle prime prove "istintive", improntate di impeccabili rispondenze naturalistiche, alla rigorosa misura del rovello stilistico, subentrato via via nella sua ricerca, dai volumi chiusi e levigati, agli slanci di svolgimenti articolati in ritmi di calcolata dinamica.
Merita una menzione specifica, ad esempio, tra le primissime opere di Mendola, del 1936, il ritratto a figura intera della figliola Ileana (allora ridente ragazzina acconciata e in posa in agevole naturalezza) che ne coglie, teneramente, nel colmo della precisione fisiognomica, il lampo della femminilità ancora in boccio. È dello stesso anno la Danzatrice, che come notava Budigna, "musicalmente riscattava nell'aereo movimento tersicoreo ogni peso materico." Armoniosissima ne è la figura, che assume nello spazio uno straordinario equilibrio formale e dinamico, intuita nella fulmineità di un attimo eterno di perfezione ideale.
Del 1937 è l'altorilievo bronzeo L'offerta della mela, con il mito biblico di Adamo ed Eva allettati dal serpente, che nulla ha da invidiare ad un esemplare quattrocentesco toscano, si direbbe, pure nella sua inconsapevole vicinanza ai capolavori picassiani del periodo rosa (dei Saltimbanchi, intendo), per la sua forma plastica.
Nel 1940 il Ritratto del padre, modellato a mo' di maschera ha la purezza di un marmo di Arp, essenziale quanto esatto nelle certezza fisiognomica.
Ma l'opera che segna un autentico balzo in avanti, nella ormai raggiunta maturità stilistica del Mendola, è il gruppo di Paolo e Francesca, del 1943. Nella gemmea pulitezza del marmo, i due nudi capovolti fluttuano come lingue di un'unica fiamma, fusi in un armonioso avvicendarsi di linee ascensoriali e di profili ondulati che danno luogo ad un accurato protendersi di ritmi plastici dal basso verso l'alto. Come ha scritto il Budigna: "c'è in effetti, ben avvertibile nel gruppo di Paolo e Francesca di Mendola, capolavoro degno di qualsiasi museo, un afflato misterioso, magico, c'è una superiore armonia formale che ha del prodigioso e conferma, come meglio non si potrebbe, la sensazione esoterica cui s'è accennato all'inizio di questo discorso." Il Budigna infatti non ha esitato a supporre, per misterioso richiamo a quello che Rainer Maria Rilke definiva greto dei padri. Personalmente, al di là di ogni interpretazione paranormale, sono dell'avviso che, insieme allo stupendo gruppo marmoreo della Ragazza che nuota sott'acqua di Arturo Martini, questo gruppo di Carmelo Mendola è l'unico capolavoro scultoreo che sia nato in Italia negli anni Quaranta del nostro secolo, di cui gli storici dell'arte dovrebbero tenere in giusto conto.
Ma questo non è il giusto luogo per affrontare un'analisi dei problemi specifici della scultura di Mendola: se ne può solo prospettare sommariamente l'excursus complessivo, toccandone i momenti più significativi che furono però numerosi. Diciamo dunque soltanto che nello stesso anno 1943 nacque il soggetto per una fontana, mai realizzata, che comprende le due figurette dei Pescatorelli, l'uno in piedi con la lenza e l'altro carponi a scrutare l'acqua, entrambi di naturalistica vivacità, la cui freschezza del modellato sembra quasi gemitiana. Vengono quindi il Torso di Centauro del 1944 di sapore manieristico, quasi montorsolesco e il bel Ritratto di Maria, del medesimo anno, dal piglio di amazzone sorridente.
Del 1945 è invece uno dei più sintomatici traguardi del Mendola: l'altorilievo orizzontale degli Uomini in lotta, un lastrone su cui si dimenano strisciando come grotteschi rettili, avvinghiandosi e ostacolandosi a vicenda o soccombendo esausti, tre uomini semisommersi in una sorta di melma, di fango primigenio, da cui affiorano, in una concitatissima sequenza di volumi viscidi e guizzanti profili.
Ed eccoci ad un'altra delle opere più tipiche e personali dello scultore ormai sicuro di sé: il Colapesce, del 1946. Il leggendario subacqueo incappato nei tentacoli di un'enorme piovra, si divincola agitando inutilmente le gambe nella tensione spasmodica di tutto il corpo che già sviene. Dalla massa della piovra, che fa da base, il corpo giovane e vigoroso di Cola, mirabilmente modellato con anatomica precisione, dirama nello spazio in un fluire e avvitarsi di forme, in lieve diagonale sospensione. Del 1946 è pure l'Onda, un fluttuare di volumi ascendenti dal blocco di base, in morbidissima sembianza di nudo femmineo, acefalo e tronco in cima, di armoniosa musicalità. Il Ritratto di Angelo Musco, efficacissimo nei tratti fisiognomici, segna nel 1947 un estremo raggiungimento naturalistico della ricerca del Mendola che ormai nel 1948, passa alla stilizzazione dei volumi in ritmica connessione con il San Giorgio e il drago, in marmo nero del Belgio e con l'Amazzone in corsa, una grande scheggia marmorea dove le ombre trascorrono con incredibile fluidità creando il senso della corsa del cavallo lanciato "ventre a terra".
Anche la Bagnante, che è già del 1952, presenta i volumi arrotondati e fluenti di ombre nel duplice dilatarsi delle braccia e delle gambe, e con il dorso arcuato dà quasi l'idea di un ciottolo magistralmente levigato. Del 1952 è il bozzetto per il Monumento al prigioniero politico, premiato nel concorso internazionale bandito da un'associazione culturale inglese. Ed ecco, nel 1953 la Sciatrice in bronzo; nel 1956 l'altro grande bronzo della Genitrice; cui seguono l'Eva Pudica e il Lottatore, ormai nel 1957 entrambi bronzei; e il Pallavolista del 1962, tutte opere in cui i volumi si articolano in sintetici bilanciamenti nello spazio, ora raggomitolati ora estesi.
Intanto, il Mendola aveva presentato, al Concorso nazionale indetto dalla Regione siciliana nel 1956, per un monumento a Giovanni Verga da erigersi a Catania nella piazza omonima, un suo bozzetto, che la commissione giudicatrice aveva accolto tra i quattro prescelti; vi aveva apportato le varianti prescritte per la prova di secondo grado, attendendo l'esito del concorso. Ma ogni decisione si impantanò in imbrogli e interessi e, come scrisse Massimo Caporlingua nel 1964, "divenne un inghippo tale da non capirci più nulla."
Nelle secche di tale situazione paradossale, il Mendola realizzò il bozzetto bronzeo definitivo della sua Fontana dei Malavoglia, funzionante anche negli effetti d'acqua, e lo collocò nella terrazza pensile antistante il giardino della sua casa, già nel 1964. L'iniziativa suscitò grande risonanza nella stampa e l'adesione di duemila firme di concittadini, sul finire del 1967, nonché l'espressa volontà della Società Storica Catanese di costituire un comitato per la realizzazione dell'opera, nella piazza Giovanni Verga, che ne restava ancora vuota.
Nel frattempo, Carmelo Mendola non era stato con le mani in mano. Oltre che compiere una serie di passi opportuni per superare lo stallo, ai livelli politici burocratici e amministrativi, aveva prodotto, nel 1965, il notevolissimo gruppo plastico della Pietà, con rinnovata ricercatezza di modellato, dimostrando di avere superato ormai la sinteticità vagamente astrattizzante di volumi e di piani, a cui si era orientato prima di allora. E si era dato, sempre nel 1965, alla invenzione di estrosi intrighi di elementi filiformi o affusolati, come nel Salvataggio o negli Acrobati, preannunciando quella che sarebbe stata nell'agitarsi strutturale dei profili, come trine nello spazio la sua traduzione della Nike di Samotracia del Louvre, nella Nike collocata nel 1968 sulla scogliera di Giardini-Naxos quale simbolo ellenico per eccellenza, a memoria del bimillenario dell'approdo dei coloni calcidesi sul litorale di Taormina.
Finalmente, negli anni settanta, l'inghippo si sciolse e il Mendola potè accingersi ad affrontare i problemi effettivi della grande dimensione e dei singoli congegni come il riciclaggio idraulico, dell’illuminazione notturna, tanto per citarne alcuni, della Fontana. La messa a punto di tutti gli impianti, almeno a livello di progetto, la realizzazione delle diverse parti organiche della vasca, l'elaborazione dei singoli dettagli plastici in scala, i sondaggi per la scelta della fonderia e i relativi contratti da concordare anche a livello economico per la parte di finanziamenti regionali, richiesero molti anni. E soltanto nell'estate del 1975, come tanti amici possono ricordare, il Mendola potè vedere i grandi tranci bronzei da rimontare insieme e saldare, ammucchiarsi entro il recinto del cantiere, in piazza Verga.
Io lo ricordo, agile, sicuro, sotto il solleone, disporre quanto occorreva, controllando le diverse maestranze e trovando le soluzioni di ogni difficoltà, senza batter ciglio.